SE VOGLIAMO CHE TUTTO RIMANGA COME E’,
BISOGNA CHE TUTTO CAMBI!
DELLA SERIE AGGIUNGI UN POSTO A TAVOLA CHE C’E’
UN AMICO IN PIU’!
E QUESTO SAREBBE IL CAMBIAMENTO?
PROPRIO COPIA E INCOLLA!
- IL MAXIPROCESSO;
- I FATTI CHE SEGUIRONO IL MAXIPROCESSO NEL 1992-1993;
- MANI PULITE;
- L’AVANZAMENTO DI UNA NUOVA CLASSE
POLITICA.
“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.”
SCRIVEVA GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA NE IL
GATTOPARDO E NON:
“Bisogna cambiare tutto per non cambiare niente.”,
ESPRESSIONE, CHE, DI FATTO, NON CAMBIA IL
SENSO DELLA FAMOSA FRASE PARADOSSALE PRONUNCIATA DA TANCREDI FALCONERI, IL
NIPOTE PREDILETTO DEL PRINCIPE DI SALINA.
E I NOSTRI POLITICI LO HANNO APPRESO E
COMPRESO MOLTO BENE!
NICCOLO’ MACHIAVELLI SOSTIENE, AVENDO PER
FINE LA RIVOLUZIONE:
“Se vogliamo che tutto cambi, bisogna che qualcosa rimanga.”
DA PARTE SUA TANCREDI, CHE HA COME FINE LA
CONSERVAZIONE, SOSTIENE UN CONCETTO OPPOSTO.
TANCREDI E’ ESPONENTE DI QUELLA PARTE GIA’
SCONFITTA DELLA NOBILTA’ SICILIANA, RIDOTTA ALLA ROVINA ECONOMICA, CHE CERCA UN
RISCATTO SUL PIANO POLITICO, TENTANDO DI APPROFITTARE DEI TEMPI NUOVI.
E, INFATTI, LA FRASE COMPLETA E’:
“Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo
che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?”
SU LAMPEDUSA, LETTORE ATTENTO DI MARCEL
PROUST, HA AGITO UNA FRASE DI A L’OMBRE
DES JEUNES FILLES E FLEURS, CHE COMMENTA IL CALEIDOSCOPIO SOCIALE DOPO L’AFFAIRE
DREYFUS:
“La seule chose qui ne change pas est qu’il semble
chaque fois qu’il y ait “quelque chose de changé en France.”
E’ UNA STORIA QUASI IMMOBILE QUELLA DELL’UOMO,
UNA STORIA DI LENTO SVOLGIMENTO E DI LENTE TRASFORMAZIONI, FATTA SPESSO DI
RITORNI INSISTENTI, DI CICLI INCESSANTEMENTE RICOMINCIATI...
DI GOVERNI SBARCATI DA CHISSA’ DOVE, SUBITO
SERVITI, PRESTO DETESTATI E SEMPRE INCOMPRESI, CHE SI SONO ESPRESSI SOLTANTO
COME CONCRETISSIMI ESATTORI DI IMPOSTE SPESE POI ALTROVE...
BUONA DOMENICA!
Daniela Zini
“Già nel
dicembre del 2018 avevamo scritto che Bonafede “non ha spiegato perché – dopo
aver fatto balenare la sua nomina – non abbia scelto Antonino Di Matteo come
capo del Dap. Alcuni boss al 41-bis avevano fatto sapere di non gradire il pm
della Trattativa. Bonafede però non li ha irritati”. La risposta a quella
domanda arriva due anni dopo, con tempi e modi sbagliati da entrambe le parti.
A questo punto il magistrato e il ministro dovrebbero chiarire nella sede
giusta: la Commissione Antimafia. Bonafede potrà spiegare cosa accadde tra la
sua prima telefonata del 18 giugno 2018, quando propose a Di Matteo il Dap o la
Direzione Affari penali (“scelga lei”) e l’incontro del 19 quando cercò di
convincerlo a prendere gli Affari penali. A Massimo Giletti ha detto: “A me era
sembrato che alla fine dell’incontro fossimo d’accordo”. Di Matteo non la pensa
così. Comunque chiese un nuovo incontro e l’indomani, 20 giugno, comunicò di
volere il Dap. Purtroppo già offerto al pm Francesco Basentini. Cos’è successo
in quelle 48 ore?
Bonafede
poi potrà spiegare la frase (riferita da Di Matteo a Repubblica) detta nell’ultimo
incontro del 20 giugno 2018. Il ministro disse davvero “non c’è dissenso o
gradimento che tenga”? Bonafede giura che non ci sono state pressioni
istituzionali su di lui. Inoltre ricorda che le parole dei mafiosi erano note a
entrambi prima della duplice proposta e quindi non hanno influenzato la sua
scelta. Tutto ciò, però, non toglie che il trattamento riservato a Di Matteo da
Bonafede sia stato offensivo. Non si tratta così un magistrato minacciato da
Riina, che rischia la vita per lo Stato. Soprattutto perché il M5S ha lasciato
intendere (a Di Matteo e non solo) altri scenari. La storia inizia con Luigi Di
Maio che in privato gli promette il ministero dell’Interno anche se in pubblico
il nome sarà un altro (Paola Giannetakis) per non mettere Di Matteo in
difficoltà.
Nessuno
smentisce però Di Maio, che fa il governo con Salvini e Bonafede offre a Di
Matteo, che non ha mai chiesto nulla, solo un posto che non c’è (la Direzione
Affari penali è occupata da Donatella Donati) e un posto che svanisce quando Di
Matteo lo accetta: il Dap.
I boss
in cella si erano fatti intercettare mentre urlavano di non volere Di Matteo al
Dap, ma Bonafede sottolinea che lo sapeva da giorni quando lo propose al pm.
Resta il fatto che la nomina di Basentini il 27 giugno, proprio il giorno dell’uscita
della prima pagina del Fatto sul veto dei boss, ha dato l’impressione di un
cedimento alla mafia. I boss hanno esultato per quella prova di forza
apparente. E hanno brindato ancora il 21 marzo 2020 quando il Dap ha fatto
uscire una circolare urgente che rendeva più facile le scarcerazioni per il
coronavirus dei boss malati o ultrasettantenni ai Tribunali di Sorveglianza.
I
Tribunali hanno deciso da soli le scarcerazioni di 300 mafiosi, senza citare
norme e circolari speciali, però talvolta sono stati aiutati dalla lentezza del
Dap a fornire la prova che non rischiavano a restare in cella. Bonafede è
responsabile politicamente degli errori del Dap. Anche perché chi ha votato il
M5S immaginava che al Dap il ministro avrebbe portato Di Matteo, non il meno
noto Basentini. Già allora, nel 2018, notavamo che Basentini è meno esperto di
41-bis e mafia, però ha altre qualità rispetto a Di Matteo: per esempio è amico
di Leonardo Pucci, assistente volontario di Giuseppe Conte a Firenze dal 2002
al 2009. nonché amico di Bonafede dai tempi dell’università. Pucci e Basentini
si conoscono a Potenza nel 2014 e sono entrambi membri della corrente Unicost,
come il capogabinetto di Bonafede: Fulvio Baldi. Gli uomini scelti da Bonafede
sono questi. Il resto sono chiacchiere.”
Marco Lillo, Bonafede-Di Matteo,
i punti che deve chiarire il ministro della Giustizia, il Fatto
Quotidiano, 8 Maggio 2020, [https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/05/08/i-punti-che-deve-chiarire-il-ministro-della-giustizia/5795190/].
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